Uno degli ultimi quadri di Adriano Pavan si intitola Dopo il temporale. Rappresenta un cespo di fiori che emerge quasi contrapponendosi al cielo ancora ingrigito di nuvolaglia. Potrebbe essere un quadro emblematico: sia per la celebrazione che qui avviene dei cinquant’anni di pittura dell’artista sandonatese, sia in senso generale. Forse non ce ne accorgiamo: ma lo scarto, sia pur convenzionale, del secolo sta portando aria nuova, aria fresca. Gli ultimi conati del manierismo post-avanguardistico solleticano il divertimento del pubblico ma mostrano anche una sorta di nausea, di rigetto. Che sia ora di metter da parte tante furbizie linguistiche, tanti fragorosi fuochi d’artificio, per tornare nell’alveo della natura? Cioè per prendere veramente in considerazione il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, magari in chiave biologica? Allora Dopo il temporale potrebbe essere non uno dei tanti quadri di Pavan: ma, per noi, il segno di una svolta.
Qualcuno dirà: ancora una volta ci illudiamo. La nostra società giuoca al virtuale, si lascia travolgere dalle sofisticazioni, corre dietro ai sempre nuovi feticci. È vero. Ma molti sintomi, all’interno della cultura più avvertita, ci dicono il contrario. La scienza scopre prospettive che ci atterriscono e, insieme, ci entusiasmano. La vera arte è là, a due passi: si guarda intorno, cerca di capire. Le ricerche degli scienziati stanno diventando parallele alle intuizioni degli artisti. Un cespo di fiori, un grumo di terra, una entità organica sia pur piccola, un fremito di atmosfera, magari l’aria che s’addensa o si scioglie: sono momenti che l’artista coglie come testimonianza di un processo che è in atto. Non si può violentare le leggi della natura. Che stia per finire la superbia dissacratrice dell’uomo? La pittura di Adriano Pavan è davanti a noi. Nove anni fa la definii come passaggio «dal nero alla luce»: un tuffo vivificante nella natura. Partivo da un nudo femminile del 1978, drammaticamente divincolantesi nella «gabbia della notte» dei sentimenti. Una sorda violenza serpeggiava tutto attorno. Quel 1978 fu veramente un anno nero per la storia dell’Italia. Se guardiamo a quel che è successo da allora, restiamo sì nel disagio e nelle perplessità; ma ci accorgiamo anche che molto è cambiato, nella vita come nella pittura. Vieppiù che l’esibizionismo diventa sfacciato e si scoprono i trucchi di una malintesa creazione artistica, ecco che si rafforza il desiderio di una pittura diversa: anzi, di un mondo diverso.
Forse è proprio un artista «di periferia» come Pavan (San Donà emarginata dai gangli decisionali del pianeta) che tocca nel vivo il problema. Dopo aver rappresentato per decenni la perdita di amore degli uomini, il loro travaglio sociale ed esistenziale, dopo averci fatto annusare l’amaro sapore della dissoluzione e della morte, egli ci offre una speranza. è la speranza di una riconciliazione con la natura, con l’ambiente, con l’ordine (diciamolo pure) del cosmo. Lo fa semplicemente con un cespo di fiori di campo? Certo. è da là che bisogna partire.
Potremmo anche seguire a ritroso l’opera di Pavan. Un tuffo all’indietro, senza nostalgia, con occhio lucido. Vediamo come subito dopo il 1950 la situazione, qui nella Bassa Veneziana come del resto in tutta Italia, fosse irta di difficoltà, aspra, travagliata; ma come si infiltrasse il senso di una fiducia nel futuro. L’artista esprimeva entrambe queste convinzioni dell’animo. Egli partiva dalla dura fatica dei campi (Mietitura, 1953); poi passava alla tragicità di taluni eventi epocali (I crimini di guerra, 1967); si soffermava a scrutare i volti pensosi della gente comune (Vecchia contadina, 1972); più avanti (1983) affondava l’occhio con forza nella vegetazione pulsante (Motivi); faceva riapparire la donna nel contesto della campagna ma con le stimmate di una ritrovata serenità (Raggio di luce, 1988); e così via fino ad oggi, entrando sempre più nel cuore della «natura naturans». Curioso sintomatico: il percorso della pittura diventa retrospettivamente, il percorso che noi stessi, dal dopoguerra ad oggi, abbiamo compiuto. Un percorso di «verità», quindi legato organicamente alla terra, anche e soprattutto nei suoi ritmi pieni e rotondi: non una fuga sventata verso i falsi abbagli del «gran varietà» delle mode. è qui, davanti ai quadri di Pavan, che ci chiediamo quanto essi – al di là della loro intrinseca qualità estetica – testimonino del tempo che abbiamo vissuto. Oggi l’arte (diciamo in generale: la creazione artistica) si volge sempre più verso l’interpretazione; cioè diventa importante il modo di recepire il messaggio. E una cosa appare chiara. Noi ci riconosciamo più nel percorso di questo artista sandonatese che nelle luci stranianti del palcoscenico virtuale che i media continuamente ci ammanniscono.
Qui sta la «verità organica e biologica» dell’uomo: non nel falso eden propostoci dal telecomando che abbiamo in mano.
Pavan ci pone di fronte ai veri problemi, al vero senso della vita, alle vere aspirazioni dell’uomo: magari anche alle rabbie, alle frustrazioni, alle disillusioni; e (perché no?) alle tenerezze e agli amori, alle carezze, ai sentimenti di una comunione tra noi. Guardiamo i quadri e, improvvisamente, ci accorgiamo che essi sono l’identikit di noi stessi. Quei verdi smeraldi o cerulei che si espandono sulla superficie in uno schiarirsi di luci, rappresentano le nostre speranze di vita. Ci avviciniamo fino a sfiorare con i polpastrelli i filamenti della vegetazione; ci immergiamo nei bagliori; quasi percepiamo l’alito di vento.
è un’altra delle subdole illusioni che il mondo ci ammannisce? No. Questa volta la pittura esprime, assieme ai cromosomi dell’artista, anche i nostri cromosomi. La sentiamo nostra. Qui, intorno a San Donà, la terra cova l’humus che esce dai quadri di Pavan. Ma nel contempo abbiamo la consapevolezza che non di chiusura localistica si tratta, bensì di uno spirito che ha la sua valenza anche oltre i confini. Credo che un abitante di Manhattan possa (anzi debba) capire questa pittura proprio come liberazione dai tabù e dalle convenzioni, dai feticci e dai falsi idoli: il segno di una profonda aderenza al patrimonio comune dell’umanità.
Un cespo di fiori, da questa angolazione, diventa anche un simbolo: il simbolo di una nuova cultura che sta per emergere, anzi proprio del nuovo mondo a cui aspiriamo… E tutto questo all’interno di quel miracolo che è la pittura.
Paolo Rizzi