Un quadro può lasciarci indifferenti oppure suscitare in noi stupore ed emozione. Perché questo accada, è necessario che ci sia in noi quella che si dice una certa sensibilità per la pittura. In pratica, che siamo in grado di guardare un quadro non perché è un Picasso o un Manet, ma per i suoi valori pittorici. Questi ultimi, poi, sono quella complessa tessitura di segni, tracce, colori che costruiscono un’immagine – o comunque una rappresentazione –, la quale non è solo una superficie più o meno studiata, ma un motivo e un messaggio, un discorso che ci viene rivolto. Tuttavia, un qualunque discorso può passare inosservato, può scivolare via senza toccarci minimamente. Perché abbia una qualche possibilità di produrre un effetto di significazione su di noi, cioè perché possa produrre in noi l’emozione per la quale è stato fatto, è necessario che da esso si muova un raggio della vita stessa dell’artista. Ben inteso, non si tratta qui dei tratti biografici, ma della determinazione con cui è rimasto fedele alla direzione intravista un giorno e poi intrapresa. Si tratta insomma della determinazione e della forza con cui egli ha saputo puntare al cuore della bellezza.
Quando l’opera di un artista ci costringe a fermarci, non è perché è bella in quanto ci piace, ma piuttosto perché ci interroga o, comunque, perché custodisce un sapere che forse abbiamo dimenticato o che l’ansia e la fretta della vita moderna non ci permette di tenere in sufficiente considerazione. Quando Pavan, con un modo di fare che da qualcuno può essere stato o essere ancora giudicato insolente, sente la necessità di cambiare proprio nel momento in cui ci si è abituati ad una certa sua maniera, non risponde ad altro che al bisogno di non perdere di vista l’interrogativo che soltanto può dirci qualcosa di noi stessi.
Tutto questo è ben lontano dall’idea di provocazione, dalla quale è nata molta sedicente arte novecentesca: non si tratta di provocazione, perché ha origine da una necessità di conoscenza e non dalla volontà di sbalordire a tutti i costi. Comunque sia, questa ritengo sia la forza che si esprime nell’opera d’arte e che ci può coinvolgere. Di questa natura sono l’energia, il movimento, lo slancio che s’irradiano dalla pennellata di Pavan e, quando il quadro è riuscito, ci costringono a ricreare la visione impressa sulla tela e così giungere all’emozione che soltanto può permetterci di comprendere, cioè di vivere, il principio che fare artistico tanto quanto il fare di ogni giorno non sono che una piccola offerta che facciamo all’invisibile.
Le tecniche pittoriche cambiano col tempo e dipendono principalmente dal risultato che si vuole ottenere. In ogni caso la tecnica non garantisce nulla: infatti, raramente le opere degli allievi superano quelle del maestro, eppure il maestro ha trasmesso loro tutto il suo sapere. Tuttavia, non per questo la tecnica, nell’arte, è poco importante. D’altra parte, ogni volta che la tecnica si traduce in regole, che poi vengono insegnate nelle scuole, subisce una semplificazione che la rende sterile, quando non nefasta.
Infatti, una tecnica va reinventata ogni volta, come una regola va ogni volta rifondata nell’azione di chi l’accoglie. Il fatto sorprendente è che le regole vanno superate. Non si tratta di una banale trasgressione, ma piuttosto di quello che, nel suo Cortegiano, Baldassar Castiglione chiamava sprezzatura, cioè la capacità che hanno gli artisti di genio di rappresentare con pochi tocchi le scene più complesse. Ora è proprio di questo che si tratta nello stile di un vero artista, cioè in quella che comunemente si dice la “mano”. Con questa parola non viene indicato altro, metonimicamente, che il movimento del corpo che si traduce, a partire dalla mente, in una tessitura. Ed è anche ciò che un artista non può trasmettere, perché è parte della sua individuale esperienza.
Proprio questo irripetibile abbiamo cercato di scorgere nelle opere di Pavan, ed è chiaro che, se le parole non possono dirlo, tuttavia possono aiutare a scorgerlo. Ci sono quadri, infatti, nella vasta e complessa opera dell’artista, che portano il segno netto ed inequivocabile dalla sua mano – quello che già Portalupi definiva “il polso” –, vale a dire di quel movimento ritornante che produce piacere ed è l’energia stessa della vita. Ci sono quadri, insomma, che anche chi li vede per la prima volta può dire con sicurezza: «Questo è un Pavan!». Che siano certi Piavi, oppure certi Abbandoni; che siano i volteggi dei motivi baroccheggianti o i Giardini d’artista, in tutti vediamo una sostanziale unità di stile che è stata felicemente definita “espressionismo lirico”, in cui il termine lirico, mi sembra, non ha da essere inteso come una limitazione del concetto di espressionismo – come se l’artista fosse sì un espressionista, ma meno drammatico o intenso di altri –, ma ha da essere pensato come un termine che definisce un prevalente uso tonale del colore, di chiara ascendenza veneta. Tuttavia, se i quadri di Pavan ci suscitano una qualche emozione, questo alla fine si deve al fatto che i segni della pittura e i loro infiniti significati si sono articolati in un’esperienza vera della vita, della quale testimonia l’opera nel suo complesso e alla quale ogni singola opera rimanda. Ed è proprio quest’esperienza vera, cioè fedele alla Musa, che rende visibile la veste della bellezza in ogni opera, sia essa un quadro o un poema, oppure semplicemente il gesto che il nostro compito ci detta.
Paolo Frasson