Uno dei primi sentimenti che le opere di Adriano possono ispirare è quello di una trattenuta violenza, d’un impronunciato che trascorre sotto i pigmenti e le paste della tela per intrecciarsi direttamente alla sensibilità del riguardante. E’ un giudizio che pare valido per tutte le stagioni dell’artista, nella lenta e assordante trasmigrazione e maturazione del suo talento espressivo. Ma che, soprattutto, è vero per gli approdi di questi anni in cui le cose più recenti, appunto, muovono attorno a soggetti ed argomenti pacati, a tranquilli mazzi di fiori, a immobili e calmi ritratti di persone. Nel decennio trascorso questa violenza d’accento espressivo trovava eco eloquente nella disperata, penetrante drammaticità dei temi. Era concitazione, tremore, febbre d’identificazione poetica con i destini certo non lieti dell’uomo contemporaneo, della sua natura violenta ed espropriata, della sua alienazione lacerante, che Pavan indagava nei suoi paesaggi aspri e tormentati con pietosa e laica partecipazione denudandola – questa concitazione tremante -nelle sue ragioni e circostanze insieme civili e umane, nelle sue conseguenze più dolenti. E – come dire – l’espressionismo della forma, l’appassionata violenza del suo linguaggio direttamente si incarnavano, si giustificavano nella violenza della passione espressa dai tempi stessi. Era una figurazione che, ben lontana dall’alludere, andava direttamente alla sostanza delle cose e dei sentimenti, denunziava e testimoniava prendendo partito, scegliendo il suo campo, con esiti di pittura talora davvero alti e compiuti e, sempre, persuasivi. Una figurazione in cui segno e sentimento, significante e significato coincidevano in una comune genesi sensibile.

Oggi, certo, il mondo e le cose non sono cambiati, gli esponenti allarmati d’allora non hanno anzi fatto che rafforzare inquietudini, le nostre vulnerabili precarietà. E dunque anche la sensibilità di Pavan, il suo retroterra emotivo, le fondamenta della sua poetica e del suo rapporto d’espressione con l’esistenza non sono cambiati. La violenza – dicevo più sopra – è rimasta, ma si è fatta pronunziare a mezza voce, sotterranea e allusiva.

Se i temi si sono ingentiliti, come presi da un languore affermativo ed erotico per la vita cui non si può sfuggire, la pittura è pur sempre inquietata da intimi trasalimenti, da tossiche acidità sottopelle che la increspano tutta accentuandone il carattere emblematico, il dilatato valore di metafora generale, di “specchio” di un’atmosfera esistenziale. E’ una pittura matura nel senso pieno di quest’aggettivo, che ci parla , oggi, in una lingua giunta ad un punto d’equilibrio estremamente suggestivo ed efficace tra la tradizione e la modernità.

Pavan vive ed opera in quel grande serbatoio di cultura ed arte che è la provincia d’oggi, “luogo” insieme geografico e sociologico che si estende in tutta la penisola e che tiene viva, per fortuna, una dialettica ancorata ai valori essenziali delle cose: una dialettica che, in assenza, s’appiattirebbe anche troppo presto sulle sterili contrapposizioni accademiche (o opportunistiche o di “schieramento” o d’altro) che si praticano attualmente nei grandi centri. Anche in questo, mi pare, la sua è una voce, che merita ascoltare, laddove appunto la maturazione del suo linguaggio scopre e indica la possibilità di essere pienamente e consapevolmente contemporanei senza fratture traumatiche con la pienezza della nostra tradizione pittorica, con il rilievo dato ad una manualità, ad una tecnica, ad un saper fare che non può e non potrà mai – malgrado gli sforzi di alcuni in questo senso – smarrire, per un pittore, il suo fascino vero, il suo valore indispensabile.

Giorgio Seveso

(Milano – giugno 1986)