Questo è periodo più violento e più sentito di tutto il mio percorso artistico: è il periodo espressionista, che ha avuto inizio nel 1963 con il dipinto “Il richiamo”, e continuò poi con gli “abbandoni” e la “città crea mostri”.
Storicamente, erano anni in cui si concludeva la lunga e talvolta aspra lotta per la fine del contratto di mezzadria. Con l’appoggio delle confederazioni, i coltivatori che avevano manifestato nelle piazze con forza crescente, ottennero, in molti casi, di disporre di una liquidazione, formata spesso dalla casa dove abitavano con gli annessi e uno scampolo di terra, buona per l’orto ed il vigneto ad uso domestico. In questo caso, le famiglie numerose non avevano altra scelta che abbandonare le campagne per cercare lavoro nelle fabbriche.
La trasformazione della civiltà contadina che portò migliaia di persone ad abbandonare le grandi case patriarcali per giungere nelle periferie delle grandi città, si tradusse nei miei quadri talora in poesia nostalgica, tal altra in cupa disperazione.
A Milano ebbi modo di conoscere importanti artisti e critici d’arte. Mi fu caro l’amico pittore Bruno Fanesi, proprietario di “Arte Galleria” di Ancona, dove esposi più volte le mie personali. Era uno di quei tipi che si era fatto strada da solo a colpi di coraggio e di umiltà, anarchico per quanto vuol dire sentirsi indipendenti e senza compromessi e mercimonio, buono al punto di non avere preoccupazioni d’esserlo.
Sempre a Milano, incontrai altri pittori come Ajmone, Cazzaniga, Cappelli, Montanari, i fratelli Bueno e tanti altri allora noti. Ma era nello studio di Fanesi, in via Sant’Agnese, che si accendevano le vivaci discussioni che mi portarono a spostare la visione lirica del mondo verso la condizione di vita nelle campagne.
Del periodo espressionista, il critico d’arte Mario Portalupi scriveva nel quotidiano “La Notte” di Milano:
“…C’è un quadro che ha fatto da perno al sistema pittorico nuovo: “Il richiamo” è quel dipinto! In azzurro, verde e grigi, nel quale compare una figura ossessa, scavata in volto; alle spalle una casupola bistorta, quasi lo fosse per rispecchio nella corrente del fiume. E invece quella figura deformata espressionisticamente era ed è rimasta nella storia dell’artista un prototipo di altre figure di contadine distrutte dal lavoro, dagli anni, dalla fatica, in una lotta impari con la povertà della terra…”
Negli anni ’70 presi possesso di una bellissima mansarda in via Trento, a San Dona’ di Piave. In otto anni che ho lavorato in questo studio ho potuto sviluppare un immenso lavoro approfondendo esperienze in diversi campi come la pittura, la grafica, il cinema, l’archeologia, le ricerche storico-fotografiche.
Ho avuto la visita di personaggi famosi come il musicista jazz Giogio Gaslini, che, diceva, i miei quadri gli ricordavano i “blues”.
È stato uno dei periodi migliori della mia vita di pittore: il periodo degli “abbandoni”, della “città crea mostri” e della “contestazione”. Una pittura forte, robusta, di un espressionismo esasperato fino a raggiungere il massimo della drammaticità con il dipinto “Alienazione”, due corpi quasi in decomposizione.
Il 24 settembre 1978, Romolo De Martino scriveva nel quotidiano “La Nazione” di Firenze:
…”Pavan non teorizza col pennello: la sua ideologia è ciò che una volta si chiamava ispirazione e che oggi si preferisce politicizzare chiamandola “impegno”, e lui la traduce in pittura. Pavan non fugge, affronta, anzi, quella che lui definisce “la condizione dell’uomo”, del “popolo della terra”, di una terra che, abbandonata, non ha più popolo se non povera gente, donne sole, case coloniche abbandonate, campi non più lavorati”…
Dipingeva fondi neri, densi e opachi, che avvolgevano nudi di vecchie. Il nero degli sfondi di questo periodo [1978/1981, n.d.r.], più che colore, diventava la negazione di ciò che veniva rappresentato nel quadro.
Le sue figure, autenticamente, smuovono, turbano le coscienze
Scriveva Angelo Baiocchi (“Il Diario” 14 maggio 1980):
Quel nudo di donna con la testa
ritorta verso sinistra e la mano destra pendula
davanti a noi è di una potenza, per ritrovare la quale
dobbiamo guardarci attorno a lungo e con attenzione
nel panorama della pittura italiana contemporanea.
Gli anni ’70, per chi li ha vissuti, sono stati anni davvero drammatici.