Congedando alle stampe la sua raccolta di articoli apparsa sull’ “Espresso” con il titolo Occasioni di critica, Carlo Giulio Argan affermava, in contrasto con coloro che sostengono l’esistenza di due forme di critica, quella meditativa e quella militante, che esiste solo un modo critico di pensare, che vale per il moderno che per l’antico. Non esiste dunque un’idea generale dell’arte, ma una pluralità di fenomeni artistici che non può essere sistematizzata in un insieme; ma in una vicenda, poiché ogni singola opera d’arte è intrinsecamente storica. Come una dimensione in più, che li rende unici rispetto a tutte le altre testimonianze storiche, dal momento che l’arte si fa in presenza dell’oggetto, che continua a comunicare sé stesso con “forza di incidenza immediata”, ponendo sempre nuovi problemi ma, nel contempo, aprendo nuove ipotesi interpretative al mutare della coscienza storica che recepisce l’opera d’arte.

Dunque, anche le opere d’arte contemporanee possiedono una loro irrinunciabile dimensione storica. Così è anche per quelle che riguardano la vicenda artistica di Adriano Pavan, pittore veneto, che inizia come espressionista, raccontando, con le sue figure scomposte, il proprio disagio davanti la crisi degli ideali e dei valori che contraddistinguono quegli anni. I suoi quadri, come i nudi degli anni ‘60\’70, sono caratterizzati da una forte tensione cromatica, da un disegno dai contorni forti e ribaditi, da una deformazione quasi caricaturale delle figure. Forme e colori sono turgide e forti: sembra quasi che l’artista voglia fissare sulla tela le rabbie, gli sfoghi, le ansie che premono nel suo animo inquieto. Eppure, certe figure femminili dell’epoca possiedono l’amplesso dell’abbandono, per i loro rimandi ad una pittura corposa, rotonda, ricca di morbide curve; talvolta persino sontuosa, quasi a rimarcare, da una parte, la formosità delle donne, quelle venete, che fan da modelle all’artista e, dall’altra, un’antica bellezza perduta. Come se quel disfacimento precludesse sì ad una morte, ma ad una morte necessaria perché, come il seme muore per dar vita alla pianta, solo da quella morte può nascere una nuova vita, una diversa bellezza.

Ed eccola, questa nuova vita, comparire prorompente nei quadri successivi, quelli dei paesaggi ebbri di colori, dei giardini luminosi e cromatici, dei girasoli veneti e quello, soprattutto, dell’albero della vita che si protende, rigoglioso, verso la luce. Anche in questa opera la pennellata è spesso impetuosa, ma anche larga aperta, corposa e ricca di cromatismi; vitale, gioiosa, quasi solare e trasparente di luce. La natura che Pavan porta nelle sue opere, in un tripudio di colore e luce, di spirito e materia, si fa simbolo di quella bellezza prima negata, ma ora ritrovata, di una maternità che tutto rinnova, di un grembo materno vegetale denso di umori, dal quale nasce il nuovo che sorge alla luce, e che con il suo periodico pulsare – l’alternanza delle stagioni – richiama all’eternità di un tempo che continuamente si rinnova.

E’ anche la vis vitalis della sua terra, quella veneta, che raccoglie, nella centralità dei paesaggi di Pavan, gli echi della storia di un atto d’amore. Ciò che l’artista dipinge non è la natura, ma il suo rapporto con la natura: pieno, dolce, talvolta anche tempestoso, sempre passionale. Così, il giardino degli artisti vagheggiato da Pavan diventa allusivo, simbolo e metafora del suo mondo e delle sue pulsioni più segrete. Un mondo che si apre all’abbraccio vivificante della natura e che nella luce che lo invade richiama, per sempre, alla serenità ritrovata.

Roberto Jacovissi