Un fondo nero, denso e opaco, circonda un nudo di donna del 1978. è da questo quadro di Adriano Pavan che penso di partire per un discorso che vuol essere dentro la pittura ma anche e soprattutto dentro il mondo. Quella donna non è propriamente nuda: è denudata, cioè spogliata della sua vitalità naturale; e il nero, più che un colore, è una privazione di colore, è una negazione. Una sorda violenza serpeggia intorno. Mi tornano alla mente i tempi storici: quel 1978 così inquieto e tormentato per la vita del nostro paese. Gli uomini fanno presto a dimenticare: dimenticare soprattutto le cose tristi. È una specie di rigetto biologico. Ma la pittura, a leggerla dentro, rievoca impietosamente.
Pavan è sempre stato un artista di matrice espressionistica: ha gettato cioè sulla tela, senza infingimenti, tutti gli sfoghi, i sentimenti, le ansie, persino le rabbie che sentiva urgere all’interno. Lo conosciamo così ed egli è effettivamente così. La forma e il colore, entrambi così spesso turgidi e forti, gli servivano – come gli servono ancora – per esprimere se stesso. Per lui, uomo all’apparenza dolce e remissivo, si può dire veramente che il quadro è sempre una radiografia. Lemediazioni esterne, cioè tutto il repertorio del gusto e della tradizione, gli sono state estranee, tanto diretta è la linfa che ha sempre sgorgato dalla sua entità organico-strutturale. Quel nero che circonda il nudo del 1978 è un nero che per lui era forse una forma di esorcismo della perdita, come a scavare sotto per verificare il residuo di una speranza oscurata. Per me continua ad avere in sé il senso della morte.
Improvvisamente mi pongo davanti ad uno dei quadri più recenti. Fa parte del ciclo “giardino degli artisti”. È uno scorcio di vegetazione, uno spiraglio nel verde aperto da occhi golosi: la luce vi penetra quasi facendosi largo tra le leggere screziature dei rosa e degli azzurrini, fino ad aprirsi in una sorta di bagliore incandescente. Dal nero siamo passati al bianco: dalla materia vischiosa all’impalpabilità dell’aria. È un salto che, simbolicamente porta alla voluttà di morte, al desiderio di vita. Simili sono anche altri quadri di questi ultimi due anni. Da essi, salvo qualche eccezione, è assente la figura umana. È la natura che si fa protagonista: una natura rigogliosa, mobile, vibratile, che ci accoglie come un caldo grembo materno.
Sono due concezioni opposte. Da una parte – leggo all’interno della pittura – la consapevolezza della precarietà di ogni azione dell’uomo: il senso dell’effimero che involge tutto ciò che esce dalla sua mano, compresa la pittura. Il nero diventa il traguardo fatale, l’implacabile previsione. Dall’altra parte la natura: cioè il tempo ciclico che si ripete. Le foglie che spuntano ad ogni primavera cadranno sì con l’autunno, ma ritorneranno poi con la stessa spinta vitale, la stessa freschezza. È la continuità del mondo: il suo ripetersi, il suo protendersi verso l’eterno. La differenza tra le due concezioni è abissale. Adriano Pavan è passato, sia pur gradualmente, attraverso sofferenze e tribolazioni, dall’una all’altra. E come prima esprimeva, nella figura umana, il destino immanente della precarietà, oggi egli è biologicamente ha una innegabile costanza. Il tessuto cellulare non è portato ad impastare la sua pittura della vitalità ciclica della natura. Guardiamoci intorno. Il tempo in cui viviamo è anch’esso un tempo di mutazioni. Sono caduti muri che parevano invalicabili; sono crollate statue che dal loro piedistallo sfidavano i secoli. Gli avvenimenti ci hanno travolto.
Lo sfaldarsi di ideologie e di steccati culturali hanno accresciuto in noi il senso di disagio, di incertezza sul nostro destino. A cosa aggrapparci per sfuggire al naufragio? Due sono gli appigli sicuri, forse soltanto due: la storia, come continuità dei valori, e la natura, come ritorno ala vita. C’è chi, nel campo della cultura come in quello della politica e dell’economia, si aggrappa appunto ai vecchi valori del passato, già vilipesi; e c’è chi, con una sorta di empito esistenziale, sente l’attrazione verso un “viver naturale”, cioè verso una simbiosi con l’ambiente a lungo così mortificato (e violentato). Un artista come Pavan, sia pur senza presunzioni, anzi nella discrezione del suo microcosmo, ha scelto da tempo l’ancora di salvezza della natura. E nella natura si tuffa come un insetto alla ricerca del suo humus vitale, quasi scavandosi la tana nella terra umida e calda.
Osservo ancora, a lungo, i quadri di diversi periodi. È sintomatico come Pavan abbia conservato la sua impronta anche nella fase più delicata del passaggio. La pennellata è sempre la stessa: impetuosa, larga, corposa, intrisa di succhi cromatici, densa di umori, nutrita d’un gesto che biologicamente ha una innegabile costanza. Il tessuto cellulare non è cambiato, con quella modalità di compattezza nei segni curvilinei e nei tratti corti, strisci e macchie, colpeggiature secche e vibrazioni improvvise. È mutato l’animus. Una sorta di fiducia vitalistica pervade ogni quadro, immergendolo in un verde rugiadoso, intenso, che fa da legame alle piccole screziature e marezzature delle tinte chiare, dei rosa e dei violetti dolci, dei tocchi di azzurro sfumato. La pittura diventa una orchestrazione tesa al diapason della luce bianca, che appare lontano, appena avvolta da una velatura di vapori. E anche laddove appare la figura di una donna, essa non è che elemento di una Mater Natura, come un fiore, come un albero. La struttura biologica unica; e il tempo ciclico alimenta, anziché sfiancare, la speranza di vita.
Ciò che mi colpisce è la capacità che ha mostrato e che mostra Pavan nel restare stilisticamente se stesso nello spettro di concezioni e umori diversi. Come non riandare ai vecchi quadri, così ricolmi di una disperata nostalgia di sereno pur nel fondo amaro che li pervade? Un uomo è tale quando sa di dover rispettare i cambiamenti che il tempo e le circostanze gli impongono, restando però sempre, all’interno, se stesso. La temperie storica è mutata; e mutata è, evidentemente, la disposizione d’animo di Pavan. L’apertura verso la natura che ora egli attua continua a derivare dalla sua qualità psico-fisica. Ne constato, quasi scientificamente, il fondo di «verità biologica». Ancora una volta egli è immune da intermediazioni culturali, cioè di infiltrazioni del costume estetico esterno. Vista anche e soprattutto da vicino, la pennellata riassume mirabilmente i nodi organici, con quella gestualità che resta tipica, come tipico è il movimento sentimentale verso un traguardo lontano. Soltanto che ora non sono più gli occhi socchiusi o imploranti delle sue donne a rivelarlo: è la cadenza stessa delle stesure cromatiche, così pregne di interno simbolismo, di espressività primaria.
Un giorno venne chiesto a Matisse che cos’era per lui la pittura. Rispose indicando uno sgabello che era nel suo studio: «Vede questo sgabello? Io non dipingo lo sgabello, ma il rapporto che c’è tra me e lo sgabello». Poi, dopo una pausa, aggiunge sommessamente: «Il rapporto è amore». Per Pavan si verifica lo stesso. La natura non è rappresentata in sé nei quadri: è rappresentato, semmai, il rapporto (cioè l’amore) che egli ha instaurato con essa. Tutto diventa trasposto; tutto si fa allusivo. Da parte nostra occorre entrare – ieri come oggi – in un mondo che è quello delle pulsioni segrete dell’artista: un mondo che ora si apre all’abbraccio panico, vivificante, della natura. Il nero è lontano.
Paolo Rizzi